Circa 157mila italiani – tanti quanti gli abitanti di una città di medie dimensioni – percepiscono la pensione di vecchiaia da almeno 40 anni, ossia dai lontani anni ’80. Si tratta dei cosiddetti “baby pensionati”, che godono ancora oggi dei criteri agevolati per il pensionamento in vigore tra il 1973 e il 1992.
Secondo i dati Inps aggiornati al 2024, gli assegni di vecchiaia erogati prima del 1980 sono oltre 157mila, di cui 95mila nel privato e 62mila nel pubblico. Allargando lo sguardo a tutte le categorie previdenziali (vecchiaia, invalidità, superstiti), i trattamenti risalenti a quel periodo salgono a oltre 549mila. Un esercito di pensionati che ogni anno pesa sul bilancio statale per circa 2,4 miliardi.
Uno dei fattori che mettono maggiormente a rischio la tenuta del sistema previdenziale italiano è proprio il peso di queste cosiddette “baby pensioni”, conseguenza di norme ormai ritirate che consentivano l’uscita dal lavoro dopo appena 20 anni nel pubblico e 14 per le dipendenti PA con figli. Oggi il nodo contribuisce ad accendere il dibattito sulla riforma pensioni in vista della manovra.
Il fenomeno evidenzia l’urgenza di interventi che allunghino l’età di ritiro dal lavoro, garantendo al contempo flessibilità. Tuttavia, non mancano divisioni nella maggioranza, con la Lega contraria ad innalzare le finestre di uscita anticipata. Un rebus che il Governo dovrà risolvere, per sanare le fragilità del sistema pensionistico e sostenere le casse dello Stato.
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