Grazie al progresso della medicina e alle migliori condizioni di vita oggi si vive più a lungo rispetto a 30 anni fa e l’aspettativa di vita continuerà a crescere per il futuro, di conseguenza anche le pensioni verranno erogate per periodi sempre più lunghi e ad un numero di persone sempre maggiore. Tale sistema non è destinato a reggere molto, da qui la necessità di aumentare l’età pensionabile e/o rivedere l’ammontare delle stesse ed i meccanismi di calcolo. Ma quella che sembrerebbe una soluzione ovvia non tiene conto di un fattore rilevante, quello dell’occupazione giovanile: aumentare l’età pensionabile significa ritardare il turn over ovvero più tardi i lavoratori andranno in pensione e più tardi i giovani potranno trovare un posto di lavoro. Oggi il rapporto tra lavoratori e pensionati è di 1,4 ovvero poco meno di 3 lavoratori per ogni 2 pensionati, un valore che è destinato a diminuire ulteriormente per il futuro.
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A peggiorare la situazione c’è una denatalità che sta sempre di più spopolando il nostro paese, non certo perché agli italiani non piace più fare figli tout court, ma perché mettere su famiglia con un lavoro precario e con una retribuzione inadeguata per poterla sostenere è una vera sfida. Per di più l’accesso al mondo del lavoro, come già detto, avviene in età sempre più avanzata. L’Italia non è più quella del boom economico dei primi anni sessanta, quando sugli unici due canali televisivi nazionali le notizie facevano quasi esclusivamente riferimento ad un paese in continua crescita industriale. I tempi in cui la Lira veniva addirittura premiata dal Financial Times come una delle monete più stabili a livello mondiale, come crescevano la nostra economia e i posti di lavoro riducendo così la povertà e andava via via scomparendo l’analfabetismo.
Da alcuni anni a questa parte a controbilanciare questo calo demografico è stato l’aumentare dei flussi migratori verso l’Italia. Un fenomeno però che ha spaccato il paese tra chi vuole un’apertura totale nei confronti di tali flussi, chi la vuole a condizione e chi ne è completamente contrario. Diciamocelo francamente, con tempi e modi diversi siamo stati tutti emigranti: lo siamo stati, lo siamo e lo saremo per il futuro. Basta ricordare che solo tra il 1896 e il 1914 ben 14 milioni di italiani abbandonarono il nostro paese. Ancora oggi non sono pochi i giovani italiani costretti ad emigrare all’estero per studio o per lavoro. Al 1° gennaio 2023 le stime dell’ISTAT indicano la presenza di 5.050.257 cittadini stranieri residenti in Italia su 58.851.000 di abitanti, poco meno del 9% dell’intera popolazione. Oggi gli studenti stranieri sono il 10% della totalità degli alunni. Dal 2001 ad oggi gli immigrati stranieri sono andati crescendo di numero sempre di più, un fenomeno che dal 2011 fa si che l’intera popolazione residente in Italia resti piuttosto stabile.
E’ chiaro a tutti che una diminuzione della natalità porta come conseguenza una diminuzione degli alunni, che sono appunto in parte compensati proprio dai figli degli immigrati. Tuttavia il trend rimane negativo come dimostra il grafico relativamente al rapporto del numero degli insegnanti e il numero degli alunni.
Questa diminuzione di alunni è iniziata alla fine degli anni ’80 ovvero proprio nel periodo in cui nella scuola avvenivano le più numerose immissioni in ruolo. Infatti dal 1980-81 e fino 1998-99 abbiamo avuto sempre meno alunni ma più insegnanti. Dal 2001-2002 il trend si stabilizza proprio grazie ai flussi migratori verso l’Italia.
A partire dagli anni ’90 è iniziata l’era della globalizzazione ovvero di quello sviluppo economico e tecnologico interconnesso a livello mondiale, ma non solo, anche a livello sociale e culturale. Sono caduti tutti quei vincoli che tenevano i singoli paesi in una sorta di individualismo su tutti i fronti. L’abbassamento dei costi di trasporto e di comunicazione dovuto al progresso tecnico e la graduale eliminazione degli ostacoli posti al commercio internazionale hanno creato un nuovo scenario. Oggi la bilancia commerciale pende a favore di quei paesi dove il costo di produzione dei beni è fortemente concorrenziale, ma questo a discapito della retribuzione del lavoratore. In questo quadro generale l’Italia ne esce fortemente penalizzata: l’industria si è ridotta significativamente sul territorio nazionale, atteso che quel poco di ancora esistente viene sistematicamente delocalizzato all’estero, laddove i costi di produzione e di mano d’opera sono inferiori, per l’appunto. I paesi emergenti sono quasi tutti del sud-est asiatico dove la realizzazione e la produzione di nuove tecnologie detiene il primato mondiale.
Cosa c’entra tutto questo con la scuola? C’entra perché non è un caso che la scuola di questi paesi mantiene quelle caratteristiche che aveva la scuola italiana di gentiliana memoria quando il rispetto delle regole e il tanto bistrattato nozionismo avevano le loro fondamenta. In Giappone, in Cina, in India, in Corea, ecc. la scuola ancora segue, sia dal punto vista formale (educazione civica) che dal punto di vista culturale (contenuti specifici della singole discipline), logiche più selettive che non in Italia.
La scuola per ogni giovane cittadino italiano è un diritto ma anche un dovere perché obbligatoria fino ai 16 anni. Ma se l’obbligo scolastico è una coercizione non può esserla certamente il dovere di studiare. Paradossalmente è come dire che un lavoratore è obbligato a presentarti sul posto di lavoro ma non è obbligato a lavorare. Che è poi, in buona sostanza, quello che sta accadendo alla scuola italiana da un buon trentennio a questa parte in modo sempre più marcato. Questo accade in una società dove il senso del rispetto è venuto meno, grazie anche ad un sistema scolastico che nel corso del tempo ha indebolito la figura del docente trasformandola a semplice impiegato pubblico. Sistema che di fatto ha trasformato la scuola in azienda dove i clienti sono gli alunni e le loro famiglie, e si sa che al cliente spesso tutto è dovuto. Sicché in Italia nel 2023 nella scuola secondaria di secondo grado il 96,3% degli studenti scrutinati è stato ammesso all’esame di stato ed il 99,8% di essi si sono diplomati. Senza contare il boom dei diplomati delle scuole paritarie, che hanno visto un incremento di iscritti del 166% nel solo 2023, con la Campania che detiene il record assoluto nel settennio 2015-2023, con un incremento di iscritti del 691%. E le università telematiche non sono da meno. Attenzione, tutto questo accade in un paese dove il titolo di studio ha ancora un valore legale.
Chi ci governa continua a dire che in Italia ci sono pochi laureati, come se il progresso di un paese fosse esclusivamente proporzionale al numero dei suoi laureati. Effettivamente nel 2021 nell’UE, come numero di laureati, l’Italia precedeva solo la Romania. Ma è solo una questione di percentuali perché in Italia, nonostante l’aumentare del numero dei laureati, i tassi di occupazione restano significativamente bassi. Vieppiù che nel 1960, all’epoca del boom economico, che vedeva l’Italia come uno dei primi paesi industriale del mondo, con esportazioni di ogni bene e una classe manageriale chiamata da ogni angolo della terra, i laureati erano solo 50.000 circa, mentre nel 2023 i laureati sono finora ben 390.000. Questa è la dimostrazione che i numeri non sono poi così importanti se ad essi non corrisponde una maggiore offerta del mercato del lavoro che non può essere tale se non esiste un adeguato livello di competenze e capacità professionali e imprenditoriali.
C’è assolutamente bisogno, quindi, di una reinterpretazione del nostro sistema scolastico e non già la solita riformetta che guarda più alla forma che non alla sostanza, tanto per lasciare il segno di sé. La nuova classe dirigente del futuro dovrebbe avere una visione strategica in grado di poter prevedere le necessità e adoperarsi nel migliore dei modi per affrontarla scientemente. Ma anche livelli di alta professionalità non disgiunti da caratteristiche di moralità ed etica. Chi ci governa, le famiglie e la società tutta sanno benissimo che sono cose che partono dal basso e vanno costruite senza ripensamenti in itinere. E chi, se non la scuola, ha il compito più incisivo per realizzare questa trasformazione? Il paese cresce se cresce il grado culturale della sua popolazione non già se cresce solo il numero dei suoi laureati.
Oggi in Italia le famiglie (soprav)vivono proprio grazie a quei pensionati tanto bistrattati che ancora mantengono economicamente i figli e nipoti. Perché purtroppo molti di questi figli trovano un posto di lavoro (quando lo trovano) in età sempre più avanzata, quando cioè mettere su famiglia e fare dei figli diventa sempre più difficile. E oggi quel depauperamento scolastico viene in parte limitato proprio da quei 5 milioni di immigrati regolari che lavorano e pagano le tasse e che con i loro figli incrementano il numero degli alunni nella scuola. Tutto questo in un contesto in cui alla scuola viene assegnata una quota del PIL del 4%, inferiore cioè alla media europea che è del 4,8%. Sotto il 4% c’è solo la Romania, la Bulgaria e l’Irlanda. Quella media europea che viene tirata in ballo solo quando fa comodo a qualcuno.
L’Italia cammina di pari passo con il sistema di istruzione che propone, sistemi che negli ultimi anni hanno fatto sempre più riferimento a quei paesi dove la scuola, col senno del poi, ha fatto marcia indietro. Questo dimostra che l’erba del vicino non è sempre più verde di come sembra ai nostri occhi. Poco o niente riferimenti alla scuola asiatica pur sapendo che tali paesi sono emergenti più di qualsiasi altro paese al mondo ed avranno una crescita economica in crescendo almeno fino al 2050. I loro livelli di istruzione e le competenze professionali hanno margini tali da compensare l’invecchiamento demografico.
Eppure c’è stato un tempo in cui noi eravamo i cinesi di oggi. Era il tempo della scuola del nozionismo, quello di cui oggi è meglio non parlarne se non si vuole essere additati come analfabeti pedagogici. Ma le nozioni altro non sono che le conoscenze e non ci possono essere competenze senza le conoscenze. Allora che fine hanno fatto le conoscenze nel nostro sistema scolastico? Quali sono requisiti per certificare che uno si è diplomato atteso che parliamo sempre di un titolo legalmente riconosciuto? Il nostro sistema scolastico è l’immagine riflessa di un paese che stenta a trovare la quadra. Per risollevarsi non deve vedere nella scuola una spesa per le finanze statali ma piuttosto una grande risorsa. E non è che “regalando” diplomi e lauree si sollevano le sorti del paese perché in Italia, da un po’ di tempo, tra la scuola del buonismo a tutti i costi, il proliferare di diplomifici e università on line, la laurea non la si nega più a nessuno e così facendo una significativa parte dei giovani può essere parcheggiata sine die.
Bisogna assolutamente invertire la rotta per uscire da questo stato di cose perché se muore la scuola muore l’Italia.
Angelo Pepe
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