Nessuna novità e nessun impatto di qualche rilievo sulle pensioni per chi lavora a scuola dalla manovrina del Governo.
La legge Fornero rimane immutata dal 2011 con l’eccezione che riguarda chi ha 41 anni di contributi e 62 anni di età, la quota 103. Un orpello aggiunto su opzione donna che richiede 59 o 60 anni di età se con uno, due o senza figli, immutata l’Ape social, uno sconto sui contributi previdenziali del 10% se si decide di restare al lavoro oltre il termine di maturazione della pensione per aggiungere qualche spicciolo alla stessa pensione e alla liquidazione, un bonus per chi non vuole fare posto ai giovani lavorando dunque oltre i limiti della Fornero che già superano di almeno tre anni la media europea dell’età pensionabile reale.
Se applichiamo queste indicazioni sulla legge di bilancio, che sarà approvata nei dettagli che potranno cambiare nella terza decade di dicembre, a docenti e ata che hanno già presentato domanda di pensionamento a partire dal primo settembre 2023 non gliene viene quasi nulla soprattutto alle donne che sono l’80% della platea. Nella scuola, per la mancata coincidenza con l’unica finestra disponibile che è sempre il 31 agosto di ogni anno e per la inconsistenza del vantaggio dei 41 anni di contributi quando per le donne che lavorano nel pubblico sono da mettere a confronto con i 41 anni e 10 mesi e un anno in più di contributi per gli uomini, la cosiddetta pensione “anticipata”. L’eventuale riapertura dei termini per un’insegnante donna non cambierebbe nulla, per un insegnante uomo invece, nel caso della maturazione di contributi previdenziali utili per 41 anni nel 2023 rispetto ai 42 anni e 10 mesi ci sarebbe da pensarci ma non è per nulla auspicabile.
E’ il caso di sottolineare, come parte integrante e fondamentale di ogni discorso sulle pensioni per docenti e ata, che nella realtà nessuno arriverà più a 41 anni di contributi delle nuove generazioni e quelle di mezzo a meno di costosissimi riscatti di laurea e percorso inevitabile di precariato, quello dove si trovano ogni anno in Italia più di 200.000 precari, un’eccezione che è diventata regola estesa agli altri settori del lavoro pubblico e privato che rende la riforma Fornero e a ragione ancora più odiosa.
Per tutti si potrebbe porre il problema di voler restare ancora al lavoro pur avendo raggiunto le due uniche possibilità di uscita della legge Fornero, cioè la pensione “anticipata” con i requisiti di cui sopra o quella di “vecchiaia” a 67 anni, non ne esistono altre tipologie per una pensione piena.
Questi eventuali casi di docenti e ata che dovessero maturare i 41 anni di contributi pieni, donne o uomini al 31 agosto 2023, oppure che intendessero rinunciare alla pensione subito volendo restare oltre i 67 anni di età al lavoro, dovranno essere messi in condizioni di farlo con una nuova scadenza termini del Ministero Istruzione e tenendo conto dell’unica finestra disponibile del 31 agosto. Per tutti gli altri è meglio lasciare le cose come sono, in attesa di necessaria e vera flessibilità, se si vuole percepire una pensione ancora dignitosa che equivale a un quasi stipendio depurato dai contributi previdenziali e probabile aliquota irpef più bassa.
Su opzione donna è bene sapere che si tratta di un vero e proprio furto di Stato. Chi può la eviti, avrà una pensione molto ridotta di almeno il trenta per cento pur avendo lavorando per 37 anni. Le casse pubbliche ci mettono qualcosa in più nella legge di stabilità ma recuperano di gran lunga negli anni di pensionamento medio decurtando la pensione mensile per la durata dell’aspettativa di vita. Per questo ogni governo la conferma e i sindacati la chiedono pure, paga quella donna che non ce la fa più costretta a vivere con il 70% della pensione rispetto a quella “anticipata” o di vecchiaia.
In generale il sistema pensioni italiano non è come ce lo raccontano quelli del governo Monti/Fornero del 2011 e i loro successori ma il discorso sarebbe lungo, basti pensare all’INPS che mette in unico calderone previdenza e assistenza nei suoi conti, al precariato a bassa contribuzione o senza contribuzione come i bonus, la carta docente e altre invenzioni mirate a non tutelare il reddito reale ai fini previdenziali, la disoccupazione giovanile incredibile che non produce nuovi contributi al sistema. Lasciamo perdere per il momento l’iniquità del sistema pensionistico italiano e almeno prendiamo atto che la media dei Paesi europei di pensionamento è intorno ai 63 anni.
Le ragioni non sono affatto quelle che ci dicono del debito italiano o della pratica ormai novecentesca degli anni ’70 ed estinta o quasi nei conti pubblici delle baby pensioni. Bisogna andare verso una flessibilità anche con penalizzazioni ragionevoli, non quelle attuali, che consentano di andare in pensione a partire dal requisito dell’età, abbassare ai 65 anni che sono peraltro vigenti in Parlamento e nelle cariche elettive, non solo con il dato dei contributi versati che non dipendono più dal lavoro o studio effettivo di chi arriva a quei 65 anni. Anche questa volta invece la montagna ha partorito un topolino sulla Fornero.
Salvatore Salerno SBC e Scuola & Politica
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