NELLA BOXE DE COUBERTIN E’ STATO MESSO K.O.

Navigando in rete la prima definizione che appare delle Olimpiadi è che “sono il simbolo della pace e della fratellanza tra i popoli che si riuniscono nel nome dello sport e si confrontano in modo leale”. 

Le Olimpiadi dell’era moderna furono ispirate dal francese Pierre de Coubertin al motto del sempre “più veloce, più in alto, più forte”,  alla fine reinterpretato come “l’importante non è vincere, ma partecipare”, ovviamente dando il massimo di sè. In effetti quest’ultima frase fu pronunciata da de Coubertin alla conclusione di un banchetto di saluto alla fine dei Giochi Olimpici di Londra del 1908, riprendendola da un vescovo anglicano della Pennsylvania.

Ed è stato sempre questo lo spirito sportivo che si è insegnato finora nelle nostre scuole, da tempo immemore: quello del rispetto delle regole, della fratellanza, dell’uguaglianza e dell’inclusione.
Ma da quando lo sport è diventato una professione fatta di anni di allenamenti, di rinunce e di sacrifici, nel gareggiare l’importante non è più il partecipare ma il vincere, perché il vincente coapta e sponsorizza. E qui si potrebbero fare infiniti esempi. L’ultimo in ordine cronologico, ma anche il più totalizzante nel circuito mediatico, è stato quello dell’incontro di pugilato tra l’algerina Imane Khelif e l’italiana Angela Carini: due vincenti/perdenti a modo loro.

Qualche giorno prima del match sono state messe in discussione le caratteristiche fisiche tra le due concorrenti e le presunte differenze genetiche tali da non sancirne l’equità dell’incontro, ed il caso è esploso.

Ormai, nel tempo dei Social, il parere del Medico Sportivo ha la stessa risonanza dell’ultimo frequentatore del Bar dello Sport, sicché l’uno vale l’altro, baypassando la Boxing Unit con tutti i suoi esperti in materia. 

Cose inimmaginabili solo cinquant’anni fa. Perché allora non c’erano i Social, che nel giro di poche ore creano mostri ed eroi, senza alcun discernimento. 

Così  per tanti è andato a farsi benedire lo spirito olimpico per dare spazio al furor di popolo che decide, di volta in volta, quello che è giusto e quello che è sbagliato ripetendo, come un mantra, l’indirizzo ideologico del partito a lui più confacente.

Alla fine Angela Carini ha chiuso il suo combattimento ancor prima di iniziarlo, disilludendo così i suoi sostenitori, già incoraggiati dalle sue dichiarazioni prima del match. Il motivo? L’aver preso un pugno al naso a pochi secondi dall’inizio. Prendere un diretto al volto rientra nella normalità della boxe, altrimenti sarebbe un altro sport. Un pugno in faccia, poi, quello subito dalla nostra connazionale, che non era nemmeno così incidente. Ma tanto è bastato alla Carini per abbandonare il ring, dopo appena una manciata di secondi. Non abbiamo avuto, quindi, nemmeno i minimi elementi per poter ipotizzare i termini di questa imparità, forse più tecnica che genetica. Perché salire sul ring per poi immediatamente abbandonarlo? Non ci sono state altre boxeur che hanno già sconfitto la Khelif? E tante altre ancora che hanno portato regolarmente a termine l’incontro? E’ solo questione di ormoni o anche di tecnica: Davide non sconfisse Golia? Ma soprattutto dove è andato a finire lo spirito olimpico? 

Di quanto l’ideologia sia prevalsa sull’aspetto sportivo è difficile saperlo.

Proprio così, perché questa storia è iniziata come una querelle tutta italiana concentrata intorno a questo match, come se non ci dovesse essere un prosieguo, cavalcando aspetti politici, filantropici, genetici e di medicina in generale, tutti tesi alla definizione improbabile dell’avversario “equo”. Non mi addentro nell’amletico dilemma se ritenere Imane Khelif un maschio o una femmina, e di quanto poi, questo già lo hanno fatto tanti studiosi della materia con pareri discordanti e difficilmente se ne verrà mai a capo. Esiste il maschio e la femmina, come esiste il nero e il bianco, ma tra i due c’è un’infinità di grigi. Paradossalmente è come voler perseguire una parità assoluta nell’incontro agonistico tale da non poter più stabilire un vincitore e un vinto, sportivamente parlando s’intende, tanto deve essere l’uguaglianza.

La prima vittima di questo circuito mediatico, dalla offese gratuite, è stata proprio l’algerina Khelif, come quella di non averla salutata alla fine del match. 

Se proprio si voleva trovare un capro espiatorio questo andava ricercato tra i vari comitati olimpici. Ma rivoltare come un calzino l’essere donna di una persona, farle ricadere addosso presunte colpe che non ha, dipingerla come oggetto di studio e presunta mistificatrice, disconoscerne il suo diritto identitario, è un atteggiamento rozzo e meschino. Le regole per potere partecipare o meno a determinate gare non le hanno mai decise gli atleti. Per questo è fazioso tutto questo fragore creato sulla legittimità dell’incontro, nonostante l’esistenza di precise regole sportive, per l’appunto, fatte esclusivamente dalle organizzazioni preposte e che vanno rispettate, bene o male che siano. Quello che è stato bocciato ieri è stato ammesso oggi? Ci sta perché vale per tutti.

Alla fine pur rispettando le decisioni prese dalle singole pugilatrici, come rispettiamo quella della Carini,  quello che ci dobbiamo chiedere è: ci saranno le stesse polemiche e gli stessi repentini abbandoni da parte delle altre atlete? Perché, in fin dei conti, sono anche questi gli aspetti “sportivi” che fanno la differenza. Altrimenti, di questo passo, ogni gara diventerà un affare di Stato.

Per quello che ci riguarda come insegnanti è capire se possiamo continuare a dire nelle nostre aule scolastiche che le Olimpiadi conservano ancora i principi che le ispirarono un tempo. Intanto hanno già messo K.O. l’ignaro de Coubertin.


Angelo Pepe

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