Che i tagli alla scuola e all’educazione non fossero necessità economica ma politica, non una misura di risparmio ma di controllo della mobilità sociale, non principio di razionalità ma ideologia, è ormai un fatto. Cosicché quando di fronte al rovinoso crollo delle iscrizioni universitarie si manifestano allarmi e preoccupazioni, l’ipocrisia dilagante impedisce di rivelare che si tratta di un risultato voluto, di governo in governo e di riforma in riforma.
Una volta ridotto lo spazio e le risorse destinate all’istruzione, una volta dichiaratala capitale del singolo e non patrimonio comune, l’intera discussione si disloca sul terreno dei criteri di selezione e sulla stucchevole retorica della meritocrazia. Laddove l’ultimo velo della spending review cade lasciando libero il campo alla più spudorata ideologia oligarchica.
Era nell’ordine delle cose che filtri e barriere, esclusioni e respingimenti scendessero progressivamente di grado. Dai mastodontici concorsi pubblici alle facoltà universitarie e ora dalle facoltà universitarie alle scuole medie con i primi tentativi di istituire il numero chiuso per l’accesso alla scuola superiore in pochi casi che rischiano però pericolosamente di moltiplicarsi. Il grimaldello che consente di forzare i compiti costituzionali della scuola pubblica e la libertà di scelta dei singoli si chiama autonomia scolastica. Espressione che sta ad indicare, nella realtà dei fatti, non già la partecipazione della cittadinanza alla gestione della scuola ma l’arbitrio dei dirigenti scolastici e delle burocrazie locali. Dopo avere assistito alla stagione dei sindaci-sceriffi, quelli che di punto in bianco mettevano fuori legge panini e gelati, rimuovevano le panchine dai parchi per allontanare i senza casa, stabilivano graduatorie razziali e deliranti per l’accesso a sostegni e servizi, o proibivano i castelli di sabbia sulla spiaggia, stiamo entrando nel tempo dei presidi-sceriffi che, una volta stabilito l'”eccesso” di iscrizioni, stabiliranno i criteri e gli strumenti di valutazione secondo i quali scolari tredicenni verranno giudicati meritevoli di accedere alla loro scuola superiore: «Faremo come all’università, prova d’ammissione e numero chiuso» dichiara orgogliosa la preside di un istituto tecnico di Mantova (ne riferisce ieri un articolo di Corrado Zunino su La Repubblica). Il fatto che il fenomeno sia ancora sporadico e assolutamente circoscritto non ne sminuisce il significato né il suo collocarsi entro una tendenza e un quadro che si fa sempre più chiaro e circostanziato. I tagli di stato tracciano i contorni di una scuola elitaria e selettiva, incoraggiano i giovani, e ora anche i giovanissimi, ad abbassare le pretese, scegliere la via dell’umiltà, rendersi “utili” a basso costo, mentre l'”autonomia” dei valvassori e dei valvassini stabilisce il dazio disciplinare e “meritocratico” per accedere ai propri istituti, ciascuno secondo il proprio estro e il proprio arbitrio, tutti invocando uno stato di necessità determinato dall’alto e probabilmente addirittura ben accetto. I presidi-sceriffi e i loro consigli di istituto non si limiteranno, infatti, a sorvegliare l’ingresso: i test serviranno loro anche come “strumento per la formazione delle classi”.
Di che cosa si tratta? Geni con i geni, mediocri con i mediocri? Discriminazioni “scientificamente” fondate? Che sappiamo, in alcuni casi, aver coperto e mascherato perfino pregiudizi razziali.
Fino a quando il motto “non c’è posto per tutti” (per tutti gli studenti, per tutte le scuole, per tutte le università) continuerà a dominare su ogni ambito come una legge di natura qualsiasi arbitrio si sentirà legittimato e inattaccabile, la costosa e potente casta dei valutatori, dall’Anvur ai signori degli Invalsi, dalle baronie universitarie ai presidi delle superiori non cesserà di crescere e prosperare.
Sempre meno istituzione formativa, sempre più organo giudiziario.
il manifesto, 20/3/2013